Nel giorno in cui avrebbe compiuto 75 anni, Freddie Mercury andrebbe ricordato, oltre che per la sua musica, per la modalità, nota, con la quale ha convissuto anni e anni consapevole di un male incurabile che ha sicuramente finito per spezzarne la carriera ma non lo spirito. Il suo è un esempio, evidente, di resilienza: termine abusato ma che nel caso in questione calza, e a pennello. E’ resiliente chi metabolizza senza esplodere, chi vive un urto ma non si rompe, chi riesce, con successo, a vivere un trauma (fisico, psicologico) senza subirlo e basta.

Stando a quanto affermato dal suo ultimo partner, Jim Hutton, e diversamente da quanto riportato nel biopic “Bohemian Rhapsody”, Freddie Mercury avrebbe saputo della propria sieropositività nell’aprile del 1987: 4 anni e mezzo, cioè, prima di morire, sul finire del 1991. Da lì a quel 24 novembre, che è giorno di lutto per ogni appassionato di musica che si rispetti, cadono 3 album coi Queen (“The Miracle”, “Innuendo” e, postumo, l’ultimo “Made In Heaven”), più uno (il secondo) da solista (“Barcelona”). Nel corso di questo arco temporale, stante una condizione psicofisica via via sempre più precaria, confesserà più volte alle persone a lui care, e ai compagni di band, di non avere scampo: dimostrando una visione e una lucidità invidiabili, le stesse che permetteranno ai rimanenti membri della storica formazione inglese di lavorare, ultimare, decine di provini. Canzoni spesso solo accennate, in alcuni casi neanche terminate. Brani lasciati in sospeso rimandando ad una prossima volta che non avrebbe più avuto luogo.

Poco meno di due anni fa, il suo ex assistente personale Peter Freestone, intervistato da Vice, ha avanzato l’ipotesi secondo cui Freddie Mercury avrebbe scientemente pianificato la propria dipartita rifiutando, a partire dal 10 novembre, ogni medicinale: eccezion fatta per gli antidolorifici. Un modo, secondo lo stesso Freestone, per riappropriarsi nel piccolo più che del suo destino, dell’esistenza che rimaneva. Una scelta, questa, perseguita fino al giorno prima della scomparsa: quando, respinte le insistenze della stampa per anni, confermò per mezzo di un comunicato di avere contratto l’AIDS invitando, il mondo intero, ad unirsi alla sua personalissima battaglia. Risale al 18 febbraio 1990 invece la sua ultima apparizione, a Londra, in occasione dei Brit Awards nel corso dei quali il gruppo venne premiato per il contributo, unico, dato alla musica inglese, contestualmente ai 20 anni di carriera all’epoca appena compiuti. “Grazie, buonanotte”., le sue uniche parole. Provato nell’aspetto, scavato nel viso, diverso, assai, dal musicista funambolico che correva da una parte all’altra del palco tenendo in pugno, come nulla fosse, decine di migliaia di persone, tradito però da uno sguardo ancora ambizioso, di chi ha trovato dignità, e obiettivo, anche nella malattia.

E allora, prendendo ispirazione dalla sua storia, come non pensare subito a quello che dovrebbe essere il fine, principale, di un percorso psicologico? Insegnare cioè ad ogni paziente, che a questo tipo di servizio sceglie di rivolgersi, che il dolore, la sofferenza, sono relativi, non assoluti. Che il valore, grande, è quello che si deve dare al quotidiano: preoccupazioni comprese, vere o false. A porre un limite alle nostre possibilità, guardando anzitutto a quali, di caso in caso, queste possano essere, siamo per lo più noi: dal momento che a cambiare non saranno né gli altri, né l’ambiente nel quale siamo immersi giorno e notte, è la nostra visione a dover essere il più possibile elastica e virtuosa. Tutto, nell’arco di un’esistenza, nasce, si sviluppa e muore: ciò vale, a maggior ragione, per tutto ciò che ostacola la costruzione di un sé pieno e compiuto. Ed è qui, prima di tutto, che opera la psicologia.
